Femminicidio: pur di fronte alle tragedie l’impulso dei politicanti è quello dello scontro senza esclusione di colpi.
di Davide Amerio per Tgvallesusa.it.
Nemmeno di fronte alla tragedia, viene meno la leggendaria – è il caso di dirlo – capacità di questo paese di trasformare qualsiasi dibattito grave, importante, e drammatico, in “caciara”.
Femminicidio come peccato originale del Patriarcato? Colpa degli uomini non più in grado di tenere testa alle mutazioni del mondo femminile? Parliamo di persone fragili (uomini, ma anche donne per i casi inversi) che non accettano un NO! nome risposta? Che non sono in grado di gestire un rifiuto o il fallimento di un rapporto?
Sposare una sola di queste ipotesi vuol dire guardare la questione con un solo occhio. E purtroppo questa è oramai la caratteristica del dibattito politico in Italia. L’obiettivo non è l’analisi dei problemi, quanto quello di accaparrarsi una parte della tifoseria pubblica. Intanto i problemi incancreniscono.
Non è forse vero che esiste una grave discriminazione verso il mondo femminile all’interno del lavoro? Perché le donne devono ancora essere discriminate nel veder riconosciuta la loro capacità di sostenere mansioni e ruoli al pari degli uomini? Perché le differenze salariali a parità di ruolo? Esiste ampia documentazione di studi sulla disparità retributiva all’interno dei generi.
E questa discriminazione, non ha forse un sapore “antico” che ricorda la definizione dei ruoli di un tipico sistema patriarcale?
Davvero possiamo non prendere in considerazione, come con-causa, la manifesta fragilità emotiva di alcuni, purtroppo anche giovani?
La violenza (in particolare il femminicidio) che si abbatte sull’altro denota una assenza emotiva di empatia. Solo con l’empatia riusciamo a comprendere lo stato d’animo degli altri, il loro dolore, così come la felicità, per condividere emozioni. Solo con l’empatia (che alberga in una parte del nostro cervello deputata a sviluppare questa condizione emotiva) possiamo evitare di provocare dolore ad altri.
Questi giovani che praticano violenza, sotto forma di bullismo prima, e poi di omicidio dopo, sono figli di quale modello educativo? Di quali strumenti si è dotata la nostra società per intercettare queste forme di devianza al loro manifestarsi?
Cosa può essere realizzato dalla scuola per arricchire il bagaglio emotivo di questi giovani? Come bisogna intervenire sulle famiglie che sorvolano e negano certi segnali nei propri figli, credendo di aver partorito un principe ereditario cui tutto è concesso?
Non abbiamo forse un problema in questo modello sociale neoliberista, fondato sul consumismo, sull’apparire, sui Like dei Social, che pone le basi per una pretesa assoluta di possesso su tutto e su chiunque?
Non ci dovremmo forse preoccupare anche delle ragazze giovani che perseguono ossessivamente la voglia di essere piacenti e guardate, che spopolano sui Social, mostrando il corpo come una merce qualsiasi?
L’educazione alla affettività, come alcuni propongono, passa necessariamente dall’educazione al rispetto di se stessi e degli altri. Non si può avere “affetto” verso qualcuno se non lo si rispetta, in primo luogo, come persona degna di essere nostro pari.
E non sono proprio i media, i giornali e la televisione, che invertono invece questo processo di rispetto reciproco; provocando, alterando notizie e sentimenti, rimarcando le opposizioni, costruendo narrazioni false, di comodo per una certa fazione politica; e utilizzando, troppo sovente, un linguaggio “mafioso” (come zittire, asfaltare, chiudere la bocca): e trasformano quello che avrebbe dovuto essere un “confronto civile – un dibattito-, in una cacofonia di urla e schiamazzi incomprensibili, utile solo ad allietare e alimentare le tifoserie? (e nel caso del femminicidio abbiamo raggiunto livelli vergognosi).
Queste sono tutte domande, direte voi, non soluzioni. Ma qui non si vantano soluzioni… si sollevano dubbi! Le risposte si generano se si pongono le domande giuste, se si affrontano i problemi in tutti i loro aspetti, e non solo in quelli che fanno comodo al “linguaggio politicamente corretto” o ai retori del “conservatorismo” di un modello sociale anni ‘50.