Afghanistan. Lo scorso 17 marzo si è svolto presso il Cafè de la paix, all’interno della splendido “Palazzo Te” di Mantova, un incontro con lo scrittore afghano Walimohammad Atai. Il cafè de la paix è una specie di agorà moderna, sede di confronti ad alto livello, splendidamente ispirata al famoso locale nei pressi de l’Opéra di Parigi in cui era possibile intrattenersi a chiacchierare con “personaggi” della statura di Zola, Wilde o Hemingway. La giusta cornice, dunque, per la presentazione di un autore proveniente dal lontano Afghanistan.
di Daniela Giuffrida per triskelion.it
Walimohammad Atai, è nato nella provincia afghana di Nangarhar nel 1996, è molto giovane dunque ma la sua vita è stata estremamente densa di avvenimenti “assurdi”, come diremmo noi occidentali ma vissuti quasi come “banale routine” nel suo paese: basti pensare che a soli 15 giorni dalla sua nascita il padre, psicologo, venne ucciso dalla gente del suo villaggio dopo essere stato denunciato dalla sua stessa moglie ai Talebani.
In una “società” siffatta puoi solo scegliere, fin da bambino, se morire facendoti saltare in aria o reagire e vivere e Walimohammad Atai scelse la seconda opzione. Decise non solo di sopravvivere alla morte certa ma di fare qualcosa per rimediare allo scempio che i talebani ogni giorno perpetrano ai danni della sua gente.
La decisione di occuparsi di diritti umani in Afghanistan nasce dall’incontro con la nonna paterna, con l’aiuto della quale il giovanissimo Atai riesce ad aprire nel suo villaggio una scuola laica e un laboratorio di cartapesta. Il contributo dato dagli americani nella fornitura di materiale didattico alla piccola scuola, convince i Talebani che egli sia una spia dell’occidente. A questa accusa, com’è facile immaginare, è seguito un attentato contro la sua persona al quale è miracolosamente sopravvissuto. Fuggito dall’Afghanistan, dopo un lungo e travagliato viaggio è giunto in Italia dove ha ottenuto asilo politico, e dove da 11 anni svolge una attenta opera di informazione e di dialogo interreligioso e interculturale.
Egli ha fondato con la sorella l’associazione FAWN (Free Afghan Women Now – Donne libere in Afghanistan adesso) per la difesa dei diritti delle donne afghane, ha conseguito una laurea triennale in scienze della mediazione linguistica e in scienze dell’educazione a Milano. Ma non si è fermato: ha ottenuto anche la laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università di Pavia. Oggi, a soli 28 è educatore professionale Socio-Pedagogico, docente, Interprete e traduttore giurato, oltre che mediatore interculturale e interreligioso, vive in provincia di Varese e scrive articoli per Pressenza ed altri media, lavora per tribunali, commissioni territoriali, Procure, carceri, questure e ministeri.
Ha al suo attivo la pubblicazione (con Multimage) di due importanti testi: “Ho rifiutato il paradiso per non uccidere” e “Il martire mancato, come sono uscito dall’inferno del fanatismo”. A Mantova, Atai, ha presentato il suo terzo lavoro: “L’Afghanistan, alla ricerca della pace “.
Incontrare lo scrittore afghano, sebbene solo telefonicamente, è stata un’esperienza unica che consiglierei a quanti credono ancora che i soprusi del regime “talebano” – così come quelli commessi in altre regioni del mondo in cui fanatismo e fondamentalismo imperano – siano solo “letteratura”, semplici esagerazioni utili a permettere l’espatrio di “sedicenti vittime” di quei regimi.
Sei in Italia dal 2013 e nonostante la gran mole di lavoro che ti impegna ogni giorno sei riuscito a regalare al tuo pubblico ben tre libri. Vorrei mi parlassi del primo: “Ho rifiutato il paradiso per non uccidere”, è una affermazione molto forte, cosa intendi esattamente?
Quel libro, parla del mio rifiuto a quel “paradiso” che ci veniva promesso in cambio della nostra stessa vita: bisognava uccidere e al contempo, diventare noi stessi dei kamikaze. Il paradiso per noi ragazzini e la nostra famiglia, in cambio della nostra stessa vita. Questo accadeva nel 2011/2012, ma ancora oggi i bambini vengono indottrinati e sottoposti in Afghanistan ad una specie di lavaggio del cervello: già le famiglie e le madri stesse li convincono fin da piccoli che è giusto farsi saltare in aria perché dopo per tutti loro ci sarà il paradiso.
Le famiglie, le madri?
Sì, le donne, madri comprese, vengono “convinte” dalla stessa società organizzata e “regolata” dai Talebani che tutto questo sia giusto! Vedi, da noi le donne vivono segregate in casa per un motivo preciso: esse sono le prime a fornire insegnamenti sulla vita ai bambini e quando le donne non sono istruite e vengono costrette alla ”ignoranza” più assoluta, non riescono ovviamente a far crescere in modo giusto e sano i loro figli e questi diventano fin da subito, facili prede dei Talebani.
Quindi sono le donne, la loro ignoranza e la loro paura, le basi su cui poggia il potere dei Talebani?
Esatto, é da quando hanno assunto il potere che i Talebani in Afghanistan hanno preso di mira le donne per cui esse non possono più uscire, lavorare, studiare. Anche mia madre e le madri dei miei amici insegnavano a noi bambini che è giusto lapidare le donne, che è giusto amare la violenza e far crescere la barba.
Cosa ricordi della tua infanzia?
I momenti più felici della mia infanzia erano legati alla lapidazione delle donne, cioè quando, insieme ad altri bambini, andavamo a lapidare le donne nei villaggi vicini: io ho partecipato a circa 300/400 lapidazioni da bambino e questo fino a 7 anni. Queste e tutte le altre violenze si facevano proprio per guadagnare un miglior posto in paradiso. In questo primo libro, racconto anche le storie dei miei amici d’infanzia: tutti diventati kamikaze, si sono fatti saltare in aria e di loro nemmeno uno è rimasto vivo.
Wali, la FAWN, cioè la Free Afghan Women Now è un’associazione che si batte per i diritti delle donne in Afghanistan, giusto?
Sì esatto l’associazione si batte proprio per l’emancipazione delle donne e per l’affermazione dei loro diritti, ma fanno anche corsi di alfabetizzazione. Ha anche fondato una scuola che aiuta le donne che vivono nelle zone rurali a leggere e a scrivere. Le donne delle ultime generazioni, non sanno neanche che esiste un altro modo, oltre al racconto orale, per comunicare, non sanno che possono scrivere ciò che hanno da dire e quindi l’associazione sta facendo di tutto per dare loro gli strumenti che possano aiutarle a “liberarsi” il più possibile.
Riguardo al velo e al burqa? Per noi occidentali è decisamente impensabile che una donna accetti di farsi “ingabbiare” dentro un burqa ma credo che al di là delle imposizioni del fondamentalismo talebano, sia un modo per “dimostrare” anche la propria religiosità, giusto?
Sì sì infatti il burqa soprattutto, più del velo, è un “carcere” che dalla testa arriva fino ai piedi, ma non è mai stato nella nostra cultura è stato inventato da questi fondamentalisti. Se vai a vedere foto dell’Afghanistan degli anni 50 e fino agli anni 80, vedrai come un tempo, tutto fosse diverso: le donne andavano in giro in gonna andavano al lavoro, studiavano e facevano carriera. Noi in quegli anni eravamo come voi siete oggi nel 2024.
Quando i talebani hanno fatto la loro apparizione hanno imposto tutte queste regole, queste costrizioni e quando hanno scoperto l’importanza geopolitica dell’Afghanistan, hanno inventato di tutto per far restare indietro la popolazione e, ovviamente, hanno cominciato proprio con le donne. Noi impariamo le prime parole proprio da una madre, da una donna e se questa è ignorante, automaticamente tutta la società rimane indietro, arretrata e in tutto questo i burqa fanno la loro parte.
Noi, come associazione stiamo lottando anche per questo: per far capire alle donne soprattutto a quelle che non appartengono alla nostra cultura che i nostri abiti sono molto belli. Oggi mia moglie usa spesso abiti tradizionali afghani ma lo fa qui, in Italia, giù da noi è impensabile che una donna ne usi uno, visto che è assolutamente proibito.
Quindi la donna non può uscire fuori casa e se esce non può nemmeno andare dove le pare…
Da noi la donna non può e non deve nemmeno fare rumore, quando esce accompagnata fuori di casa, non può nemmeno fare rumore con le scarpe!
Sei arrivato in Italia nascosto sotto un tir che si era imbarcato su una nave traghetto per l’Italia, hai faticato come tanti tuoi connazionali e tanti altri provenienti da altre regioni del mondo, hai lavorato sodo per pagarti gli studi e sei riuscito ad ottenere due lauree e finalmente, sei riuscito anche a sposarti e a far venire in Italia la tua bellissima moglie. Ma non hai smesso di lottare per la tua gente, giusto?
Sì, noi lotteremo sempre e per sempre, dobbiamo assolutamente continuare! Il governo dei Talebani a quanto pare, piano piano, viene riconosciuto a livello mondiale e anche l’Italia probabilmente lo riconoscerà presto: è dunque indispensabile che noi ci si concentri molto sulle nostre donne, ciò che vogliamo con tutte le nostre forze è che la prossima generazione sia finalmente istruita accuratamente, così che si possa pensare ad un Afghanistan diverso da ciò che è stato e che purtroppo è ancora.
Investire sulle donne, sull’istruzione per cambiare il destino del paese?
Sì, la nostra associazione nasce proprio per le donne. A fondarla è stata mia sorella quando ha visto che le sue amiche ragazzine venivano barattate, vendute in cambio di animali, per diventare spose di vecchi di 40 anni. Quando ha visto che molte di loro si impiccavano prima di essere portate a casa dello sposo, sconvolta da questa cosa ha voluto aprire l’associazione, proprio per salvare le future donne afghane dai matrimoni combinati ed evitare che ci siano più “spose-bambine”.
Comunque aiutiamo anche i bambini orfani e i bambini che hanno perso arti perché saltati su mine anti-uomo che, come giocattoli, sono seminati dappertutto. Abbiamo messo su anche un ospedale dove mia sorella faceva il chirurgo ma, da quando sono tornati i Talebani le donne non possono più lavorare e anche lei, come tutte le altre donne è stata chiusa fra le quattro mura di casa.
Ma esiste il modo, la possibilità di buttar giù questo governo? Pensi che le donne riusciranno a dare il loro contributo nello sviluppo del paese?Perché va benissimo che la donna si ribelli, ma fino a che punto può riuscire a farlo, a far leva sull’opinione pubblica maschile, a convincere gli uomini (non Talebani) ad essere loro compagni di lotta, a scendere in strada con loro per far rinascere il paese? Non so se da sole riusciranno mai a farlo…
Non lo so, guarda, ti posso dire che oggi, in questo momento, lo slogan che trovi inciso o dipinto sui muri di Kabul (ma anche nelle altre province dell’Afghanistan) afferma che la donna deve essere vista o in tomba o in casa ed è proprio un diktat dei Talebani perché loro lo sanno, sanno che il cambiamento verrà dalle donne e hanno molta paura di loro! Ed è per questo che le hanno subito prese di mira e questo mi preoccupa, mi preoccupa tanto.
Perché vedi, le donne, anche quelle che erano istruite sono state comunque rinchiuse in casa ed esse, col tempo, hanno perso e perderanno le loro capacità, le loro conoscenze e nasceranno altri bambini che diventeranno ragazzi, che rimarranno ignoranti e sicuramente apprezzeranno la violenza e tutto ciò che c’è adesso.
Ciò che viene portato avanti dai Talebani purtroppo non può essere “sconfitto” solo dalle donne: loro possono fare davvero molto poco da sole, quasi nulla, in questo momento. Purtroppo la società afghana e una società patriarcale, una società in cui l’uomo decide per tutto e quindi la vedo molto dura, molto difficile per le donne la possibilità di alzare la testa e richiedere i propri diritti, bisognerebbe cambiare la società stessa e questo è molto, molto improbabile che possa accadere. In questo contesto aggiungi anche la povertà VOLUTA da chi sta al potere: la gente è stata resa davvero molto povera!
Ci sono uomini che apprezzano e aiutano le loro donne e le altre nella difesa dei loro diritti?
Sì, assolutamente sì ma c’è talmente tanta povertà che loro stessi sono disposti perfino a vendere i loro figli e i propri organi per sopravvivere! Quando la gente è povera, pensa alla pancia, non pensa alle altre cose come diritti e tutto il resto.
Quindi è tutto un gioco crudele che sembra senza via d’uscita, servirebbe un cambio culturale, che ci fosse davvero una presa di coscienza anche da parte degli uomini.
Esatto.
Voi vivete a Busto Arsizio avete avuto difficoltà ad ambientarvi?
Sì, una grande fatica. Busto è un comune molto chiuso: ero andato a chiedere al prete di una parrocchia se volesse, potesse educare mia moglie che era arrivata da poco dall’ Afghanistan. ma il sacerdote mi ha detto, molto chiaramente, che noi veniamo da un paese musulmano e che pertanto dovevamo sparire da davanti alla sua faccia. Questo è un problema che viviamo non solo noi ma anche altri amici, che arrivano da altre parti d’Italia e che, dopo tre anni, non riescono ancora ad integrarsi.
Noi comunque andiamo avanti, cercando di superare tutte le difficoltà che ogni giorno ci troviamo ad affrontare e col pensiero sempre rivolto alla nostra terra, alla nostra gente.